Pleniluni e Quarti di Luna

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    Caverne abbandonate

    12 aprile 2015

    Timidi virgulti di ciminiere sbocciavano fino a ieri sotto il padiglione solatio dell’ultimo cielo boreale; corolle di camion formavano un tappeto esteso a perdita d’occhio. Lo vedevamo dalla cella del faro, col cuore in gola per l’altezza e una lacrima ad ogni giro del riflettore, quando si ripetevano, variate di poco, le visioni del lampo precedente. Ci stringemmo, allora: sentimmo il corpo dell’altro sotto le dita. Sul fondo, il clangore della lampada rotante. Erano inutili i ricordi ad alta voce, li vivevamo insieme ancora. Il percorso ripido che ci aveva portato dalla caverna alle stelle, dal buio denso di ombre e fantasmi alla luce. Considerate però incauto chi vi dice male di quella spelonca che ora abbiamo abbandonato, come sempre per sempre. Anche laggiù ci sono i suoi spassi. E non dite che ve li raccontiamo, che, come vi piace insinuare, ne “condividiamo l’esperienza”: no.
    Nella grotta, è bello tacere quel che accade. Basti dire che, uscendo, la Nereide scarmigliata rideva più che Aurora sul mare sereno, e dietro a lei il Fauno, fatto umano nei piedi, appariva insieme sfinito e ilare di soddisfazione. Oh come chiudere gli occhi e sognare! Uscire ha la sua bellezza, e pure la sua fatica.

    Il mare!

    01 aprile 2015

    Sulla rotta untuosa di un pelago serpentino, i bastimenti asburgici incontrano castelli fatati. Così successe al capitano Gerilio, e i pesci volanti circondarono lo scafo a frotte canterine. (Chi dice che siano mute, le creature del flutto del corallo? sordo era costui, senza orecchie nell’anima.) Vide, l’abile marinaio, aprirsi il mastio, e sorgervi altra creatura volante, la cresta da gallo aveva, il dorso di cammello, collo e pelame di giraffa, ali di pteroglosso. E sopra il catafratto: da averne paura, ché nulla di lui si vedeva, e poteva non esserci persino, dentro la lorica. Vide e non più vide: giunse per avventura ai fari gemelli, temuti ai naviganti per lo stretto spazio entro i due, e fermarono il suo vascello con cavi elastici di gomma caraibica.
    Chiamarono il medico: che non seppe dire se il Gerilio, tapino, fosse ormai orbo o se fosse preda a delirio o forse entrambe le cose. Pietoso, il padrone del circo che faceva tappa laggiù ogni stagione lo prese con sé e lo fa vedere agli astanti. Narra una storia: che abbia veduto oltre le porte dell’inferno, le mille figure del tormento e del perdersi. E quello, pare, annuisce, movendo la testa; o forse è solo un altro, trascurabile questo, sintomo dei suoi mali.

    Favola

    26 marzo 2015

    La lucertola disse al bue:
    “Io al sole ci sto bene. Potrei stare qui per ore, e guizzare all’improvviso per arraffare la mosca o la formica, e rimettermi ferma, la gola appena palpitante che fa vedere la vita. Vedi, non serve poi tanto, le cose arrivano da sole, se sai star fermo ad attenderle. Se ti agiti, non sei mai al posto giusto, ci passa la fortuna e tu sei già andato più in là. Queste pietre di città, lo credi? sono meglio di quelle di montagna, più calde, più friabili, con anfratti facili e sicuri. Io ero qui, tutto è cresciuto, scatole di mattoni fino al coperchio di tegole, un albero di laterizi e sopra una palla, di cosa non so, non ci sono mai andata, ma deve avere del fuoco, di notte fa luce. Tutto si è sviluppato, e benedetto il giorno in cui mi sono fermata qui. Se andavo da qualche altra parte, sarebbe stata dura trovare anche solo un sasso, una selce per casa.”
    Rispose il bue:
    “Va bene così, per te, la vita. Non per me che non mangio mosche o formiche e ho bisogno d’altro che di sole. Lavorare tocca, tirare aratri e carri, muoversi tutto il giorno e alla sera ti va bene se non sei ridotto a bistecche. A me è andata bene, ma non so per quanto. Anni, abbiamo durato, a portare coi carri mattoni e ferro, calce e ghiaino, e gli uomini hanno costruito la città. Ora è finita, e chissà se ancora han bisogno di noi...”